TRENDS / INSPIRATION
Nel nostro lavoro c’è sempre stata una tensione fertile tra intuito e struttura, tra sorpresa e progettazione, tra brief, dall’alto, e gioco, dal basso. L’intelligenza artificiale si è inserita in questa tensione non come un’alternativa, ma come un catalizzatore. Non è una scorciatoia. È una cassa di risonanza. Non sostituisce, amplifica.
Come leDehors, abbiamo scelto di integrare l’AI nel nostro metodo non per delegare, ma per potenziare. L’intelligenza condivisa di cui parla Ethan Mollick – quella che vede nell’AI un collega, un tutor, un coach, un partner – risuona con il nostro modo di lavorare, che è fatto di osservazione sensibile, strategia sartoriale e sperimentazione concreta.
Usiamo l’AI:
• Nel brainstorming e nella progettazione iniziale, per esplorare scenari, accelerare l’associazione di idee, costruire una cornice coerente intorno a un’intuizione. L’AI ci aiuta a strutturare, senza ingabbiare.
• Nella creazione di immagini e video che fungano da stimolo per i clienti o come strumento per visualizzare i concept. Non sono mai output finiti, ma trampolini visivi su cui costruire allestimenti, moodboard, esperienze.
• Nello sviluppo di oggetti, materiali, texture, packaging, espositori. Qui l’AI diventa un complice inatteso: ci suggerisce palette, ci aiuta a testare combinazioni cromatiche, ci ispira a usare la materia in modo narrativo.
• Nel design di nuove experience, soprattutto dove servono collegamenti inconsueti, storytelling ambientale, micro-interazioni inattese. L’AI propone e siamo noi – con la nostra sensibilità, esperienza e conoscenza dei brand – a filtrare, selezionare, tradurre.
Il nostro approccio è ibrido, umano-centrico, creativo. Usiamo l’AI come si userebbe un materiale nuovo: sperimentando, contaminando, costruendo. Perché nel retail, nel marketing, nell’experience design, non vince chi ha più dati, ma chi sa trasformarli in presenza viva, in una scena magnetica.
In un nostro recente insight citavamo la famosa frase di Lavoisier: "Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma". Anche l’intelligenza – quella naturale e quella artificiale – segue questa logica. Noi non la temiamo. La trasformiamo.
Tra la creazione e la ricezione
Non è lo strumento, è il destinatario a fare la differenza. Lo diceva Calvino, in Cibernetica e fantasmi, lo dice la critica d’arte Valentina Tanni autrice di Conversazioni con la macchina. Il dialogo dell'arte con le intelligenze artificiali (Tlon), che scrive: “Non dovremmo chiederci se il computer sia in grado di fare arte (…) quanto piuttosto se gli esseri umani, destinatari del gesto artistico, possano/debbano apprezzare artefatti culturali prodotti tramite processi automatici da un elaboratore”.
Possiamo dire lo stesso quando si parla di creatività applicata alla comunicazione e al marketing? Anche qui non si tratta di misurare quanto sia “artistico” o “originale” il risultato generato, ma quanto sia capace di risuonare con chi guarda, ascolta, legge. In questo, la tecnologia è solo un alleato. A fare la differenza resta la sensibilità umana: il modo in cui usiamo gli strumenti per raccontare qualcosa che abbia un significato reale e autentico per chi ci è di fronte.
Quale futuro
Un’ulteriore riflessione nasce anche da un’interrogazione che, sempre più spesso, sentiamo affiorare tra colleghi e clienti, ma anche dentro di noi: che lavoro facciamo, davvero? È una domanda che abbiamo incrociato nel numero 187 della newsletter Koselig, di Mafe de Baggis e che nel contesto dell’intelligenza artificiale torna con forza.
C’è infatti un trade-off sempre più esplicito: da un lato il timore che parte del nostro lavoro venga assorbito (o banalizzato) dall’AI; dall’altro l’opportunità di creare qualcosa di più ricco, proprio grazie alla relazione con l’AI. In fondo, è come stare su una tavola da surf: l’onda arriva e non si può né fermare né ignorare. Si può solo imparare a leggerla, a danzarci sopra. A cambiarla, lavorandoci insieme.
Il futuro della creatività non sarà una gara tra uomo e macchina, ma una forma di cooperazione emergente, fondata sul rispetto dei ruoli e sull’empatia dei processi. L’intelligenza artificiale sa generare combinazioni, ma siamo noi a immaginare il contesto, leggere il sottotesto, sentire il clima emotivo. E allora sì, il lavoro creativo del futuro sarà probabilmente sempre più spesso il risultato di un’interazione. Ma sarà sempre anche, e prima di tutto, una scelta di campo umana su cosa vale la pena mostrare al mondo.
Immaginare insieme
Come inizia a mostrarsi anche in progetti di formazione come Imaginaolgy, proposto da Samaritual con l’obiettivo di insegnare l’arte di immaginare usando l’AI generativa, il punto non è solo co-creare con l’AI, ma accedere a quello che Maurizio Goetz definisce un terzo spazio creativo, aiutandoci a precisare meglio i termini del discorso: non si tratta solo di co-creazione, perché l’umano e la macchina non operano sullo stesso piano logico. Meglio allora parlare di dialogo generativo: uno scambio dinamico, un meccanismo di domanda-risposta che evolve con l’intuizione dell’uno e la logica dell’altra.
Da questa simbiosi asimmetrica nasce spesso una creatività che appartiene appunto a un terzo spazio: non solo né umano né artificiale, ma frutto di un’interazione dove empatia, diversità e immaginazione si moltiplicano. È in questo spazio che ci piace stare. Dove le idee non si sommano, ma si trasformano.
leDehors progetta esperienze: momenti in cui le persone incontrano un brand in modo autentico, memorabile, emotivamente risonante. Un lavoro che sembra semplice, ma non lo è: si costruisce a strati, richiede tempo, analisi, sensibilità e una costante capacità di adattamento. La nostra creatività nasce da studio, ricerca quotidiana, ascolto attivo e una forte etica professionale.
Le competenze tecniche contano, ma il vero valore sta nella qualità della relazione e nella cura con cui leggiamo contesti e persone. Tutto questo è sostituibile? Ce lo diranno, come sempre, le persone con cui lavoriamo.
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